Quelli che vanno. Una madre, attrice di professione, sempre in viaggio. Evita il proprio fratello, ragazzo di provincia senza pace. C’è qualcuno che li aspetta, prima di prendere decisioni importanti per le loro vite. Quelli che restano. Un vecchio che suona il flauto all’ombra di un albero, il tempo che si ‘congela’ e sembra svanire.
Marco Bellocchio e Bernardo Bertolucci si sono confrontati, presentati da Mario Sesti, proponendo Sorelle e Histoire d´eaux. Una saga familiare formata da tre episodi di una stessa storia, girati in tre anni diversi e realizzato insieme agli studenti del laboratorio di cinema di Bobbio, il paese del piacentino di Bellocchio, il primo; un inedito spaccato su immigrazione, integrazione e fuga dalla realtà il secondo. Tantissimi applausi per due maestri del cinema italiano. Sullo sfondo, due quadri di Boccioni della serie ‘Stati d’animo’. “Quelli che vanno e quelli che restano” come la sensazione che il movimento pendolare delle proprie origini sia quello della vita di tutti.
“Trovo bellissimo il film di Marco, mi ha commosso – ha esordito Bertolucci – mentre lo vedevo pensavo ad una delle differenze che ci sono tra noi: io ho spesso la sensazione di essere qualcun altro (volevo essere Godard, Renoir…), Marco invece è sempre stato violentemente se stesso. Ogni volta ad ogni film, diventa se stesso”. E Bellocchio ha confermato: “Anch’io ho avuto delle passioni per gli autori ma ho cercato di essere personale in modo ossessivamente narcisista”. Sui loro primi incontri, Bertolucci ha ricordato: “Ho incontrato Marco a casa di un amico nel 1962 poco prima di iniziare a girare La commare secca. Gli amici non credevano che avrei iniziato a girare il mio primo film. Il giorno dopo infatti vennero sul set a controllare che fosse vero”. “Io amavo molto la nouvelle vague, lui il free cinema inglese. Dopo qualche tempo vidi Ginepro fatto uomo e poi I pugni in tasca. I pugni mi sono arrivati dritti nello stomaco. Questo e Prima della rivoluzione sono film atrocemente autobiografici. I pugni in tasca se non mi ha proprio influenzato, segretamente ha lasciato in me molte tracce”.
Altro tema intenso, la vita nelle loro città. “Fino alle fine degli anni ’60 c’è stato un confronto ravvicinato tra Parma e Piacenza – ha sottolineato Bellocchio – la cultura piacentina guardava all’ambiente romano con un certo ‘moralismo critico’. A partire dal Conformista questo confronto ravvicinato si è dilatato, è come se avessimo preso due strade accentuatamente diverse pur ‘guardandoci’ passo dopo passo”. “La guerra che Piergiorgio affronta in Sorelle – ha aggiunto Bertolucci – l’ha già combattuta Lou Castel, è il destino di chi nasce (e odia) la provincia. Fino al momento in cui 30 o 40 anni dopo pensi che forse la provincia è l’unico posto in cui si può vivere in Italia”. Commovente invece il suo ricordo di Pierpaolo Pasolini: “La prima volta che l’ho incontrato, avevo 14 anni ed era domenica, nella casa dei miei genitori a Monteverde, a Roma. Lui bussò alla porta, mi disse che aveva un appuntamento con mio padre. Ma io non conoscendolo lo lasciai aspettare sul pianerottolo. Il suo aspetto (il ciuffo nero, il suo viso forte) metteva paura, così andai da mio padre e gli dissi: ‘C’è uno che ti cerca, ma secondo me è un ladro’. Poi Pierpaolo è venuto a vivere nella mia stessa palazzina ed è subito diventato il mio grande amore. Quando scrivevo una poesia non chiedevo più consiglio a mio padre, ma mi precipitavo giù dalle scale per fargliela leggere”. Infine, sulla Festa di Roma, il bilancio del regista è ironico e positivo: “Mi spiace perché non passo molto da via Veneto… All’inizio ero perplesso, ora mi vedete qui: è una prova della mia coerenza. Avete coinvolto la città e questa è una sfida che avete vinto con successo. Forse potete ancora migliorare ma in fondo nella vita tutti gli uomini possono migliorare”.
Marco Bellocchio e Bernardo Bertolucci si sono confrontati, presentati da Mario Sesti, proponendo Sorelle e Histoire d´eaux. Una saga familiare formata da tre episodi di una stessa storia, girati in tre anni diversi e realizzato insieme agli studenti del laboratorio di cinema di Bobbio, il paese del piacentino di Bellocchio, il primo; un inedito spaccato su immigrazione, integrazione e fuga dalla realtà il secondo. Tantissimi applausi per due maestri del cinema italiano. Sullo sfondo, due quadri di Boccioni della serie ‘Stati d’animo’. “Quelli che vanno e quelli che restano” come la sensazione che il movimento pendolare delle proprie origini sia quello della vita di tutti.
“Trovo bellissimo il film di Marco, mi ha commosso – ha esordito Bertolucci – mentre lo vedevo pensavo ad una delle differenze che ci sono tra noi: io ho spesso la sensazione di essere qualcun altro (volevo essere Godard, Renoir…), Marco invece è sempre stato violentemente se stesso. Ogni volta ad ogni film, diventa se stesso”. E Bellocchio ha confermato: “Anch’io ho avuto delle passioni per gli autori ma ho cercato di essere personale in modo ossessivamente narcisista”. Sui loro primi incontri, Bertolucci ha ricordato: “Ho incontrato Marco a casa di un amico nel 1962 poco prima di iniziare a girare La commare secca. Gli amici non credevano che avrei iniziato a girare il mio primo film. Il giorno dopo infatti vennero sul set a controllare che fosse vero”. “Io amavo molto la nouvelle vague, lui il free cinema inglese. Dopo qualche tempo vidi Ginepro fatto uomo e poi I pugni in tasca. I pugni mi sono arrivati dritti nello stomaco. Questo e Prima della rivoluzione sono film atrocemente autobiografici. I pugni in tasca se non mi ha proprio influenzato, segretamente ha lasciato in me molte tracce”.
Altro tema intenso, la vita nelle loro città. “Fino alle fine degli anni ’60 c’è stato un confronto ravvicinato tra Parma e Piacenza – ha sottolineato Bellocchio – la cultura piacentina guardava all’ambiente romano con un certo ‘moralismo critico’. A partire dal Conformista questo confronto ravvicinato si è dilatato, è come se avessimo preso due strade accentuatamente diverse pur ‘guardandoci’ passo dopo passo”. “La guerra che Piergiorgio affronta in Sorelle – ha aggiunto Bertolucci – l’ha già combattuta Lou Castel, è il destino di chi nasce (e odia) la provincia. Fino al momento in cui 30 o 40 anni dopo pensi che forse la provincia è l’unico posto in cui si può vivere in Italia”. Commovente invece il suo ricordo di Pierpaolo Pasolini: “La prima volta che l’ho incontrato, avevo 14 anni ed era domenica, nella casa dei miei genitori a Monteverde, a Roma. Lui bussò alla porta, mi disse che aveva un appuntamento con mio padre. Ma io non conoscendolo lo lasciai aspettare sul pianerottolo. Il suo aspetto (il ciuffo nero, il suo viso forte) metteva paura, così andai da mio padre e gli dissi: ‘C’è uno che ti cerca, ma secondo me è un ladro’. Poi Pierpaolo è venuto a vivere nella mia stessa palazzina ed è subito diventato il mio grande amore. Quando scrivevo una poesia non chiedevo più consiglio a mio padre, ma mi precipitavo giù dalle scale per fargliela leggere”. Infine, sulla Festa di Roma, il bilancio del regista è ironico e positivo: “Mi spiace perché non passo molto da via Veneto… All’inizio ero perplesso, ora mi vedete qui: è una prova della mia coerenza. Avete coinvolto la città e questa è una sfida che avete vinto con successo. Forse potete ancora migliorare ma in fondo nella vita tutti gli uomini possono migliorare”.